Ieri l'altro la Segreteria di Stato - la Segreteria di Stato, non il portavoce - della Santa Sede ha emesso un comunicato riguardante le recenti vicende belliche in Iraq. Tre sono le considerazioni svolte. 1) La Santa Sede, "conosciuti gli ultimi avvenimenti occorsi a Bagdad, che segnano un'importante svolta nel conflitto iracheno e una significativa opportunità per il futuro della popolazione, si augura che le operazioni militari in corso nel resto del Paese possano ben presto terminare, al fine di risparmiare altre vittime, civili o militari, e ulteriori sofferenze a quelle popolazioni". 2) La nota offre poi la collaborazione della Chiesa per "la ricostruzione materiale, politica e sociale dell'Iraq": ossia, la comunità cristiana è pronta, "attraverso le sue istituzioni sociali e caritative, a prestare i necessari soccorsi. Così pure le diocesi in Iraq sono disponibili a offrire le proprie strutture per contribuire a un'equa distribuzione degli aiuti umanitari". 3) Il Vaticano auspica, poi, che, "al tacere del fragore delle armi, gli iracheni e la comunità internazionale sappiano cogliere la impegnativa sfida presente, che è quella di far sorgere definitivamente un'era di pace nel Medio oriente".
Si può anche osservare una mutazione di tono e di stile in questo intervento rispetto a quelli che la Santa Sede esprimeva prima e durante il conflitto. Il cambiamento è meno marcato di quanto possa sembrare, se appena ci si rende attenti alle circostanze diverse. E' vero che la guerra è stata combattuta senza l'autorizzazione dell'ONU; adesso, però, occorre esprimere tutte le possibilità di pace che costituiscono, appunto, una opportunità per il popolo iracheno.
Pare del tutto logico che la Chiesa si presti con la generosità e il disinteresse di cui è capace attraverso i suoi figli, per affiancarsi a strutture umanitarie in vista di una sopravvivenza del popolo iracheno, sopravvivenza che si orienti quanto è possibile celermente verso una struttura sociale democratica.
Nulla di nuovo, dunque. C'è, però, da notare il richiamo all'ONU: richiamo che non sembra senza qualche difficoltà a essere accettato in questa precisa circostanza. Ancora una volta si è preso coscienza di una notevole fragilità che connota una sorta di governo sovranazionale - addirittura mondiale - che l'ONU dovrebbe, in teoria, esercitare. Nata in seguito all'ultima guerra mondiale, sessant'anni fa, l'Organizzazione della Nazioni Unite sta evidenziando le incongruenze e perfino le contraddizioni che ne diminuiscono o ne ledono il potere. Non si riesce a capire, se non in base a un riconoscimento di vittoria di una guerra, perché mai cinque Stati possano avere diritto di veto e altri no. Non si riesce ad accettare con tranquilla adesione che popoli di grande rilevanza numerica, culturale, economica ecc. possano essere collocati sul medesimo piano - contare uno - di altri Stati assai meno rappresentativi.
Forse è giunto il momento di rivedere l'impianto su cui si fonda una istanza giuridica e operativa universale. L'osservazione non deve meravigliare più di tanto. Era già contenuta nel Concilio Vaticano II e precisamente nella Costituzione Gaudium et Spes, promulgata il 7 dicembre 1965, là dove si parla di "guerra giusta": "Fintanto che esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa"(79).
Si apre qui il discorso riguardante non solo la struttura formale di questa autorità sovranazionale, ma - ancor prima - riguardante la stessa fondazione culturale, filosofica e, comunque, capace di giustificare una autoregolamentazione dei diversi Stati. Spiace dover ricordare ancora una volta che in questione è lo stesso "diritto naturale" o il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona singola o associata. In assenza di principi universali a cui tutti si sottomettano per il bene comune, non rimane che un positivismo giuridico il quale rischia di avviarsi o a una inconcludenza, o a una sorta di tirannia magari concordata. Si è di fronte all'esigenza di un ripensamento profondo e prolungato che diventi mentalità e stile di azione. Lavoro di lunga programmazione. Anche perché, se si astrae da una norma morale da tutti accolta e onorata, a presentare aspetti di debolezza discriminanti potrebbero essere in primo luogo le istituzioni statuali che si reggono su uno schema democratico.
Lo si voglia o no, si profila l'urgenza di qualcosa che assomigli a una nuova Yalta. Ma ben diversamente motivata. Le religioni possono concorrere a questa impresa in modo singolare: ovviamente nel pieno rispetto della libertà della fede e della impostazione di pensiero di ciascuna persona, di ciascuna aggregazione, di ciascuna nazione.