Omelia nella Messa di Natale

Como, Cattedrale, 25 dicembre 1997

 

Sarebbe troppo facile concedermi a una gioia senza supporto e senza motivazio­ni. La storia che mi si racconta nel Natale è tanto bella da sembrare una favola beffarda che mi vuole apparentemente consolare, ma finisce per esacerbarmi. Il dolore che mi trafigge l’animo è tanto violento e sottile, da chiedere altro dolore e da mettermi in sospetto di fronte alla seduzione di una pace che può essere la stasi del deserto e la quiete del nulla.

Non posso fare a meno di guardarmi dentro per avvertire e lasciar giungere a galla gli interrogativi e le ribellioni che agitano il cuore.

La speranza manca. Non c’è più nulla che mi richiami la dolce e impegnativa possibilità di guardare al domani. Sembra che l’io sia fisso al momento in cui vivo e sia privato di ogni protensione all’avvenire. Niente futuro. Niente da attendere, da progettare e da costruire. Soltanto un maledetto adesso che mi inchioda a una sorta di angoscia che non so dominare.

Non dico l’ampiezza di una strada maestra. Soltanto un sentiero vorrei. Ma an­che questo camminamento si perde in una sterpaglia e rimango fisso al punto di non riuscire neppur più a tornare indietro. E l’essermi perso significa anche il non saper più le direzioni dove cercare la felicità o dove consegnarmi alla desolazione o dove tentare l’insignificanza: l’insopportabile schiacciante impossibile significanza, poiché devo pure scegliere tra la gioia suprema e la irrivedibile deso­lazione.

E sono solo. Conosco a memoria l’esigenza che porto dentro di aggrapparmi alle persone che mi vivono accanto. E l’esigenza di lasciarmi leggere nell’intimo. E l’esigenza di lasciarmi aiutare a sopportare il male dell’essere. E l’esigenza di tendere la mano a mia volta, per soccorrere l’altro e dimenticarmi un poco e intuire finalmente chi sono, lasciandomelo rivelare da chi mi sonda il profondo dell’ani­mo e mi interpreta assai meglio di quanto riesca io. E sono certo che esisto soltanto quando, rompendo l’orrendo labirinto della mia solitudine, mi spalanco a una fraternità che è stupore immenso: almeno il prender coscienza di non essere solo e non dover gridare all’assurdo; ma assai più: lo sperimentare che il fratello possiede il segreto di chi sono e di chi devo diventare; e così sono chiamato a essere una libertà che si costruisce o si lascia costruire da una dilezione che riceve e da una iniziativa che offre.

E invece. E invece esito a uscire da me per perdermi e così ritrovarmi. Mi ca­muffo accuratamente per non lasciarmi interpretare. E parlo di tutto, ma non affer­mo nulla. Nemmeno mi scopro capace di emettere interrogativi conturbanti. E ho paura di ciò che potrei essere nel caso in cui un altro mi rivelasse il destino che tengo nascosto e che, del resto, sfugge alle mie prese. E mi ribello a guardare l’altro e a proiettare su di lui l’interpretazione che so dare della sua fisionomia compiuta, poiché non posso se non conoscere e lasciarmi insieme conoscere; non posso promuovere senza lasciare che l’altro mi stimoli a una perfezione che, forse, è regalo, ma mi smuove a una responsabilità che rifiuto di ammettere. E tento una illusoria mancanza di impegno che vorrebbe cullarsi in un’aurea mediocrità, men­tre dal profondo si fa sentire la vocazione alla santità. Niente di meno.

E la solitudine mi esalta e mi opprime. E sento di essere fatto per l’alterità e l’oblazione e la creatività; e per l'umile richiesta di essere soccorso perché sappia chi sono e con quali forze devo compiermi. Una solitudine che mi attrae come una vertigine, ma mi abbatte come il precipitare in una voragine. Una solitudine che per un po’ di tempo è apparsa come una mèta, e che ora ha il sapore di una condan­na. Una solitudine che sono chiamato a superare, o che può trasformarsi in aggres­sione e quasi in incomunicabilità. Una solitudine che è come l’urlo di chi pretende di essere come Dio e si accorge che Dio è compagnia, e l’orrore turbina nello spirito e nel corpo come una sciagura.

E chi sono? Poiché percepisco di dover essere uno che si erge e si apre alla comunione con i fratelli e si inginocchia davanti all’Infinito. Ma quando mi ribello a questo concedermi arreso e gioioso, mi ritrovo a essere legione, una maschera per ogni contesto e per ogni dialogo; uno stile abborracciato e confuso che non mi traduce mai; e mi ritrovo a non esser nessuno.

Che cos’è questo anelito che non mi dà pace nello staccarmi da tutti e da tutto, e mi tormenta finché non giungo al confronto con l’altro e con un Assoluto che sembra schiacciarmi, mentre intende liberare la mia felicità? Che cos’è questo fremito che mi muove verso traguardi sempre più alti e orizzonti sempre più vasti? Che cos’è questo sentirmi incompiuto e non riuscire a compiermi se non lascian­domi compiere?

E’ qualità del genio il porre le domande esatte, giuste e necessarie. La mia aspi­razione si perde in una sorta di nebulosa che mi serra la gola e mi inumidisce gli occhi e mi costringe a presentire che non mi rimane altro se non cessare di resistere all’assalto, alla pacata e dolce aggressione, alla fascinosa seduzione di Dio.

Ma avverto che non mi basta un Dio lontano: un Dio che rifiuti di chinarsi sulla mia situazione di straccione figlio di Re. Avverto che non mi tocca, non mi conquide, anzi mi urta, un Dio geloso della sua aseità che esita o si oppone all’addossarsi la mia condizione di uomo con tutto ciò che di abietto e di esaltante reco dentro.

Il Natale. Ecco, è nato per noi un Bambino, un Figlio ci è stato donato: Egli ha sulle spalle il dominio.

Devo tacere. Tacere e rendere desto e proteso l’animo perché sappia invocare e gemere di gioia alla visita del Signore che giunge tra noi - Uno di noi - a consolare il suo popolo; giunge a saziare finalmente il cuore. Ora tutti i confini della terra vedono la salvezza del nostro Dio: il Dio che, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio che e ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Il Verbo incarnato è irradiazione della gloria di Dio e im­pronta della sua sostanza; sostiene tutto con la potenza della sua parola e purifica dai peccati vivendo la nostra condizione umana, la sua povertà che si spinge dal vagito di un Bimbo al grido di un Giustiziato, ed è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli, e pulsa e respira tra noi come il Vivente che ci perdona e ci introduce nel mistero della sua grazia.

Il silenzio della mezzanotte eterna è stato rotto da questa Parola pronunciata nelle tenebre, che si è incarnata nel Dio-con-noi e ha abbagliato l’umanità e l’uni­verso.

Non è più possibile passare accanto a questo Dio che si fa dono in una natura umana, rimanendo indifferenti. Sono posto nella condizione di una scelta inevita­bile: o collocarmi sul versante del mondo che non riconosce e non accoglie il Si­gnore Gesù, o lasciarmi raggiungere e trasformare, diventando così figlio di Dio, credendo nel suo Nome.

Ora Dio ha volto e mani e cuore di uomo. Non posso affermare di crederlo mentre non si vede, se, nella concretezza dell’esistenza, rifiuto la Chiesa che si vede. E se non lo intuisco nei fratelli e se non mi lascio avvolgere dalla gioia e dalla gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.

Constato che non sono capace neppure di porre gli interrogativi che occorrono. La domanda che mi freme nel fondo dello spirito, si chiarisce quando è posta di fronte alla risposta di Dio che è Inizio.

Allora avvampa l’intelligenza e si placa il cuore. E sono uno con i caratteri della mia umanità e della partecipazione alla divinità di Cristo. E mi scopro fratello di tutti, poiché trovo l’Origine e il Fine e il Modello di una Famiglia divina che mi si rende ospitale nell’Unigenito del Padre, Primogenito di molti fratelli. E l’animo reimpara a sperare: anzi, si orienta a una eternità beata, poiché il Dio che si fa regalo a me è il Dio che, nel Cristo, mi compie di là da ogni desiderio.

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