Omelia nella Messa di Natale

Como, Cattedrale, 25 dicembre 1995

 

Possiamo, dapprima, chiederci che cosa esattamente festeggi il Natale. La do­manda, che può sembrare tanto ingenua, si rende necessaria per ripulire le idee, cercando l’essenziale sotto le incrostazioni paganeggianti che tentano di imporsi e di soffocare il vero significato della memoria.

Se si considera il Natale con atteggiamento puramente storico, privo di fede, si può terminare la ricerca in due esiti soltanto superficialmente contrastanti: una visione critica o una visione mitologica.

La prospettiva critica raccoglierebbe i dati documentari che ci vengono dalle fonti pagane e giudaiche e dalle fonti cristiane. Tacito parla di “superstizione” che alligna a Roma; Svetonio segnala dei disordini - rispetto all’Impero - “impulsore Chresto”; Plinio il Giovane - il nostro concittadino - dalla Bitinia ragguaglia l’Im­peratore affermando che egli non inquisisce, ma giudica e punisce i credenti in Cristo che sono stati accusati, ecc. In campo giudaico abbiamo le leggende profanatone del Talmud e le informazioni di Giuseppe Flavio. In campo cristiano è da recepire almeno il Prologo del Vangelo di Luca che si impegna a collocare nelle coordinate del tempo e dello spazio l’avvio della missione pubblica di Cristo. Per non parlare dei Vangeli dell’Infanzia di Matteo e ancora di Luca, i quali, pur elaborati in senso teologico, dipendono pure dal fatto della nascita di Gesù.

Qui ci si trova in una situazione paradossale, se non scatta la decisione di crede­re: da una parte, non si può negare la venuta di Cristo; da un’altra parte, non si riesce a spiegarla come un avvenimento che rientri nei parametri di una assoluta normalità. Non si supera il dilemma, se non nella fede, che pure è dono di Dio, oltre che libera risposta umana.

C’è, poi, l’altro corno del dilemma a cui può approdare una ricerca priva di capacità di cogliere il Mistero. Ed è l’approdo mitico. Qui si sosta su quelle che si sogliono interpretare come abbellimenti o trasfigurazioni di fatti storici abbastan­za insignificanti; oppure si descrive non ciò che è capitato, ma ciò che l’onda emo­tiva vorrebbe fosse avvenuto; Dio affermato in nome di un sentimento razional­mente cieco; l’Incarnazione del Verbo come un sogno a cui ci si spinge e non si intende rinunciare.

In ogni caso, rimaniamo con il cielo chiuso su di noi: con i cuori aridi per la solitudine a cui sono costretti, con le intelligenze incompiute, vibratili e sperse davanti a favole o a enigmi. Il Natale trasformato in giorno di emozione coatta, di regali immotivati, di bontà fugace e infondata. L’albero contro ogni precetto eco­logico. Santa Claus un po’ buffa e menzognera. Il paese dei balocchi che non rie­sce a spiegare il perché di una gioia.

E invece. Invece, se si accosta il Natale con gli occhi e l’animo della fede; se si comprende bene l’accadimento e il mistero dell'Incarnazione del Verbo, allora cambia tutto.

 

Ci si accorge che Dio ha voluto uscire dalla sua aseità, e il Verbo ha piantato la sua tenda in mezzo a noi e ha voluto farsi sodale di cammino della nostra vita dolorante, di qualche nostro sprazzo di letizia; e nostro fratello di morte per giun­gere alla risurrezione.

Si tratta di un avvenimento che ci raggiunge e ci coinvolge fino all’intimo di noi stessi: fino al cuore dell’essere e dell’agire. Un avvenimento circoscritto nelle di­mensioni storiche - un avvenimento verificatosi un tempo e altrove - raggiunge un significato universale: ci interessa e ci tocca fino ad assurgere a evento decisivo per la salvezza nostra e di tutti gli uomini.

E’ ovvio. Il cristianesimo va accolto perché è vero: perché ha una sua consistenza storica per cui nello stesso Credo si rammenta la figura del procuratore Ponzio Pilato. La poesia nasce da questi accadimenti, vissuti però, nella persona del Verbo di Dio venuto tra noi per strapparci dal peccato e divinizzarci.

Tuttavia, non esiste appagamento, se prima non si erge un desiderio, un’attesa: addirittura un’esigenza. Una risposta non risponde se, prima, non si pone una do­manda.

Se vogliamo scrutare il nostro cuore accasciato eppur implacato, noi ci accor­giamo che è un brutto sogno la favola dell’innocenza. E’ un sogno da incubo anche quando troviamo il coraggio di scandagliare il nostro animo, ammettendo il pecca­to che grava su di noi e ci deturpa; il peccato e la propensione pressoché irresistibi­le al male.

Trivellando più a fondo, raggiungendo il nucleo centrale e insorpassabile del nostro io, rinveniamo un’aspirazione che Dio ha collocato in noi per grazia: l’aspi­razione a essere perdonati per essere ammessi oltre la soglia della vita intima di Dio: di Dio, che per la mediazione di Cristo, ci dona lo Spirito; lo Spirito che ci innesta nel Signore Gesù nel quale gridiamo “Abbà, Padre”.

Inizia qui non solo la salvezza che riceviamo, ma anche la responsabilità che assumiamo nel’aderire a Dio. La morale non è mai un moralismo rancido o arci­gno che si erge davanti a noi come una legge esteriore e condannatoria. E’ la logica dell’amore la quale fa sì che la persona, sentendosi amata sino alla fine, sino alla fine vuole riamare: deve, può riamare.

La benedizione del dovere si impone a ciascuno di noi nella sua vita intima: preghiera, dominio di sè, povertà, carità fraterna, ecc. Si impone anche su un piano sociale. Ed è fonte di gioia autentica.

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