Asterischi sul Rosario

Si «osano» ancora critiche nei confronti del Rosario? Forse talvolta si ha l'impressione d'aver liquidato tutto con un'alzata di spalle. Che – alla superficie, all'apparenza – significa molte cose: una preghiera vecchia e ormai sorpassata per sempre; una preghiera adatta ad una civiltà di «minores», mentre con la diffusione della cultura ecc.; una preghiera formale che non ha molto senso in un periodo in cui si va scoprendo la spontaneità, l'inventiva, la dimensione interiore e così via; una preghiera ripetitiva, e s i potrebbe continuare.

Poi ci si accorge che si è alla ricerca soprattutto di semplicità e di concretezza. Poi si avverte che la cultura non è fatta soltanto di libri alti così: e altro è leggere e altro è capire; e altro è capire e altro è pregare. Poi emerge l'esigenza di contemplazione che non è vuoto fantasticare o astrusa costruzione razionale o esercizio letterario dove si bada più alle parole e alle frasi, che e a Dio. E le parole – quelle vere – che servono sono poche e hanno soltanto il compito di portare oltre la loro formulazione. E si intuisce che il Rosario – un'orazione giudicata per bambini o per ignoranti – è arduo e saporoso rapporto religioso che soltanto i mistici sanno «gustare» (v'è un altro termine che esprima?): i mistici autentici e i poveri credenti che pure nascondono in cuore la fragile e innegabile tensione all'esperienza comunionale immediata col Signore.

Expertus potest credere quid sit Jesum diligere. E un'esperienza non si lascia troppo agevolmente razionalizzare: a fatica la si chiarisce a se stessi. La si «sente» piuttosto. La si «vive». E chi può capire capisca. Chiedo a Dio di capire.

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«Padre nostro che sei nei cieli...». «Ave, Ma ria piena di grazia...». Dieci volte. E poi d'accapo. Da quando il Verbo s'è fatto carne, le parole umane nascondono un mistero insondabile: sono piene di un senso che travalica i nostri concetti e la nostra esistenza. Travalica eppure è «dentro». «Per noi e per molti». Non tutte le parole umane, ma soltanto quelle di cui Dio s'è voluto servire per togliere – e lasciare ad un tempo – il velo che ci separava da lui e dietro il quale «c'è» lui in una prossimità, in una donazione che fa ergere l'animo nello stupore dell'accoglienza, nella vibrazione del contatto oscuro eppur concretissimo della fede. Fino ad invocare: «Rompi la tela di questo dolce incontro»: « Adesso e nell'ora della nostra morte». Non tutte le parole umane. Quelle di nostra invenzione possono essere vaniloquio debilitante. Ma il Verbo – la Parola divina – ha voluto farsi parola umana. In Gesù di Nazareth. E poi nei suoi gesti. E poi nel suo dirsi della predicazione. E poi in quella «memoria» spirituale e concretissima che è la Scrittura. La parola che lo Spirito ha offerto a noi è l'identica parola che lo Spirito – il quale, dentro di noi, prega per noi con gemiti inesprimibili – ci sollecita a riconsegnare al Padre, per Cristo, carica di un significato nuovo: la nostra vita in tutte le sue debolezze e generosità, nel piangere e nel gioire, nel tradursi dell'annuncio, .nella fatica esaltante per costruire e invocare i nuovi cieli e la nuova terra. «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti .di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa».

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Il proporsi di Dio a noi – la Rivelazione – si fa il rendere noi stessi a Dio: si fa preghiera. Soltanto così evito di perdermi nel cielo delle astrazioni o nella desolazione degli «idoli». Soltanto cosi spacco l'angoscioso perimetro della mia solitudine (fossi pure tra una folla) . Soltanto cosi esprimo a Dio ciò che Dio s'attende da me.

«Exitus et reditus»: l'aprirsi della la Trascendenza nella carne di Cristo e della Chiesa mi coinvolge fino a portarmi nel seno del Padre. E le parole ispirate che pronuncio, le devo trattare con un rispetto, con un'adorazione analoga all'atteggiamento che sono chiamato a tenere nei riguardi dell'Eucaristia. Non hanno mai dispiegato il mistero che raccolgono.

Son sempre da scoprire nelle loro pieghe che attingono la stessa vita trinitaria. E mi devo lasciar condurre da esse con l'obbedienza dovuta alla pedagogia di Dio . Altro che mia inventiva: ciò .che in me nasce dalla spontaneità può essere sogno sfuocato, inane monologo, autocelebrazione o abbattimento disperato. Mi è chiesto il dialogo della docilità dove le parole che recito – quelle giuste – mi superano sempre, ma senza umiliarmi poiché costantemente, fiduciosamente mi sollecitano a divenire secondo il disegno della mia vocazione.

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Ripetitività? L'amore è ripetitivo, quasi rituale. E così manifesta la sua fantasia incontenibile. «Il faut des rites», direbbe Saint–Exupéry; e si sa che i riti son quelle cose che rendono una giornata diversa dalle altre. Con buona pace dei luoghi comuni. Quando poi si tratta di un amore che risponde all'Amore che sta «all'inizio» e si colloca «all'ultimo» – in trepida attesa –, allora il ritornare sui sempre medesimi termini, sulle sempre medesime frasi è come un continuo, paziente, abbandonato bussare alla porta poiché si sa che oltre v'è una Presenza reale che chiama: finché la porta si spalanchi dopo lunghe, condiscendenti esitazioni. Ed è l'inesprimibile, temuto e desiderato abbraccio dell'eternità.

Tanto più che io stesso, oggi, non sono più ciò che ero ieri: nuove pene, nuovi scacchi, nuovi sforzi, nuove misericordie mi hanno mutato. Il mio entrare nella parola deve recare anche queste novità. E un «Pater» non mi trova identico ad un altro. E cosi un’«Ave».

Invocare Maria non significa sol tanto mettersi davanti ad un'«oggettività». Maria è soggetto umano. Risponde. È donna. Rende sopportabile, intenerisce la vita. E' vergine e madre. Comprende. Porta al Signore Gesù: non trattiene a sé. E' come un'esistenziale dipendenza dal suo Figlio. «Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto».

E poi, Ma ria è come il segno e – assai più realisticamente – la sintesi della Chiesa. Non ci si pone solo «di fronte» a lei : da lei ci si deve come lasciare includere perché ripeta in noi il suo «Fiat». Di là dalle nostre debolezze e dai nostri tradimenti – ed anzi, prima – sta questo «seguire» personalizzato, questo attonito ammirare, questo lieto ringraziare, che è la Madonna – che è la Chiesa – e che ci avvolge. «Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente, e santo è il suo Nome». La Chiesa «santa»; nonostante le nostre colpe. La Chiesa che offre il perdono e che si rivolge a Dio come Sposa: «Vieni, Signore Gesù». La Chiesa che ci avvolge e che prega «per noi peccatori» perché abbiamo a ·raggiungere la sua immacolata adesione a Cristo. Con immensa misericordia.

Pregare Maria, alla fine, è pregare con la Chiesa e nella Chiesa. Vale a dire: congiungersi sempre più al Redentore. Umilmente. Semplicemente. Con l'animo di chi si sa scelto e salvato da una Iniziativa incomprensibile eppure ineliminabile. E si riinizia a confidare. Ci si impegna anche, ma senza la paura e la concitazione di chi ignora come vanno a terminare le cose. E senza la stolta sufficienza di chi si ossessiona per autoredimersi o per rendersi «credibile». Credibile perché e per chi? «Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili». «Chi fa la volontà del Padre mio, questi mi è fratello, sorella e madre».

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Il Rosario, la preghiera dove nei «misteri» si ripercorre la vicenda di Cristo: nell'attesa, nella nascita, fino alla morte di croce. E poi.

Si ripercorre e si condivide.

Con lo sguardo e col cuore a Maria e di Maria.

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