Si discute molto, in questi giorni, della grazia che il Capo dello Stato – con o senza la firma del Guardasigilli – dovrebbe concedere ad Adriano Sofri, liberandolo dal carcere che è conseguenza di una condanna passata in giudicato dopo una lunga trafila di giudizi, a motivo dell’accusa imputatagli di concorso nell’omicidio del funzionario di polizia Luigi Calabresi. Vicende note, che hanno trovato reazioni disparate, non senza qualche coloritura politica e forse ideologica.

        Si permetta una riflessione semplicissima e svincolata da qualsiasi partito preso. Sta il fatto che Sofri, pur esaltato per la sua autorieducazione e per la sua capacità di analisi culturale della situazione italiana, non ha chiesto la grazia, né – a quanto pare – intende chiederla. Tale liberazione dal carcere, se venisse concessa, non potrebbe non apparire come una smentita, se non proprio una condanna, dell’Ordine giudiziario. La magistratura assicura di aver svolto il proprio dovere con giustizia: ciò almeno è da presumere, se non si intende implicitamente accusarla di errore, quand’anche non di motivazione ingiusta perpetrata consapevolmente. Insomma, una grazia concessa senza domanda da parte dell’interessato segna una sorta di riprovazione: di errore, di colpa o di dolo dei giudici al vaglio dei quali  il delitto Calabresi è passato. Non si riesce a trovare un’altra spiegazione coerente dei fatti.

        Paradosso: proprio gli ipergarantisti che difendono quasi a priori la magistratura oggi invocano e quasi pretendono questa incongruenza. Quanto, poi, ai tendenziali accusatori dei magistrati, secondo i quali accusatori si esigerebbe addirittura il pagamento dei danni per errori giudiziari, non si vede come possano logicamente – allegramente – esonerare i presunti giudici erranti dalle loro responsabilità, e questo in modo radicale. Capisca chi può.

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