Come ti riduco un'attenta analisi del Paese a un fervorino devoto e vuoto sulla concordia. E' l'impressione che ho provato nello scorrere la rassegna stampa di ieri che riferiva la prolusione del cardinal Ruini - presidente della Conferenza episcopale italiana - ai vescovi riuniti in assemblea generale entro le mura vaticane. Mi limito a evidenziare tre spunti veloci (ma vi sarebbe ben altro da dire). Una premessa. «Non è il caso di cedere ad allarmismi e tanto meno di spingere verso ulteriori radicalizzazioni: il nostro sistema democratico è in realtà assai più solido e sicuro di quel che a volte si vorrebbe far apparire». Ne prendano buona nota gli intellettuali che van gridando al complotto, al regime, alla dittatura e amenità del genere.

  1. Europa senza omologazione di popoli. Era atteso ed è giunto puntuale il richiamo all'impegno di costruire un'Europa che riconosca «il ruolo, passato e presente, del cristianesimo e delle chiese». Con una precisazione, però: «Accanto alle materie che dovranno essere sempre più demandate alla competenza e responsabilità diretta dell'Unione, come quelle della politica estera oltreché della moneta e più in generale degli indirizzi economico-finanziari, ve ne sono altre che sembra assai più opportuno mantenere nella competenza delle singole nazioni, secondo la logica della sussidiarietà». A ciò si aggiunga un appunto sulle questioni che riguardano gli «sviluppi del federalismo» e del «necessario coordinamento tra autorità centrali e periferiche». Siamo lontani da una paura quasi patologica di fronte allo sviluppo di qualche autonomia delle Regioni.
  2. È abbastanza facile intessere discorsi operaistici e pauperistici anche circa i rapporti di lavoro. Basta miscelare un po' di solidarietà in stile profetico. Oltretutto, si guadagna in popolarità. Poi, però, occorre verificare se le aziende riescono a produrre o sono costrette a chiudere. Una ditta di Gallarate deve misurarsi con un'altra di Shangai o di Budapest. E allora? Ruini richiama «un forte senso di giustizia e di solidarietà». Pensa tuttavia indispensabile «una più diffusa consapevolezza della necessità dell'innovazione in un mondo sempre più interdipendente e in rapida evoluzione».
    Ci si confronti sulle cose e sui numeri, non sui proclami, se si vuole il bene dei poveri.
  3. Altro appello alla complessità dei problema e alla fatica - alla pazienza e alla chiarezza - quando Ruini parla degli immigrati. Chiede la «tutela della legalità e di una efficace regolazione degli ingressi anche in vista delle effettive possibilità di una dignitosa integrazione nel nostro tessuto sociale e civile». Soggiunge però subito la necessità di «un approccio solidale e rispettoso delle persone degli immigrati, in particolare quando si tratta di veri "rifugiati"». Né tralascia di considerare le esigenze «del nostro apparato produttivo e della nostra stessa popolazione, l'uno e l'altra bisognosi dell'opera degli immigrati». Sembra di udire altri ammonimenti saggi ed equilibrati assai lontani da certo pressappochismo ammantato di Vangelo che quasi invitava a venire in Italia da qualsiasi Paese. L'accoglienza. Già. E l'identità nazionale? Frontiere aperte. Già. E l'ospitalità non può finire per rivelarsi un trucco e una cattiveria? Eccetera. Ricordo i rimbrotti ricevuti quando, anni fa, avevo osato dire un'ovvietà, e cioè che nel nostro Paese non c'è il diritto di invasione passiva.
    Ruini parla pure della famiglia, della crisi demografica, della scuola e così via. Perché mai una sorta di silenzio stampa nei suoi riguardi? Che non sia perché le sue prese di posizione non rientrano pari pari nelle caselle riduttive della vulgata massmediologica prevalente?
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