E adesso la scuola privato-sociale parifica­ta. Adesso, perché il ministro Moratti l’ha promessa esplicitamente nel conte­sto della riforma globale durante gli Stati generali della scuola a Roma il 18 e il 19 dicembre scorsi. Privato-sociale, perché è vero che la proprietà degli stabili, l’arti­colazione e la conduzione della scuola so­no elementi privati. E, tuttavia, il servizio che tale struttura rende è pubblico: rag­giunge, cioè, e forma alunni che sono cit­tadini del popolo italiano a pieno titolo: almeno nella misura del 7% questi stu­denti esonerano la scuola a gestione sta­tale a occuparsi di loro. Dovessero rove­sciarsi di brutto nella scuola pubblica, an­drebbe in crisi il già traballante ministero della Pubblica istruzione.

Che la scuola privato-sociale debba essere anche parifi­cata, poi, significa che, accettando le nor­me di fondo della legge civile, essa va messa in condizione di poter esistere e operare anche sotto il profilo economico. Sia chiaro: non si sta né tentando di sopprimere né osando denigrare la scuola a gestione statale già in crisi per conto pro­prio. Vìva la scuola pubblica, dunque, dove in collegamento con le famiglie degli alunni e con la società, si impartiscono una formazione e un’istruzio­ne laiche. E laicità significa, nel caso, accordo con le convinzio­ni e gli stili di vita dei genitori è con il patrimonio di valori che sta alla base della Costituzione italiana, e disponibilità a misu­rarsi in un dialogo orientato al­la ricerca della verità.

Non te­mano, i papà e le mamme, i do­centi e gli studenti, di essere in­truppati a forza in una religione o in una ideologia La scuola pri­vato-sociale non coincide con quella religiosa né specificata­mente con quella cattolica: può essere di svariatissimi orientamenti culturali, purché si adegui alla convivenza civile del nostro Paese. Essa, anzi, non potrà non rivelarsi salutare per la scuola tout-court, alzan­done il livello e assicurandone la serietà. Perché mai piallare tutte le originalità e per di più giocando al minimo indispen­sabile, quando c’è gente che vuol rendere il massimo possi­bile nel settore professionale e nello sforzo di formare e di abili­tarsi a una autentica criticità nell’apprendimento e nella emissione di giudizi? Perché mai temere una concorrenza - o la si chiami come si vuole - che permetta ai migliori di pro­seguire la scuola, preparandosi così alla vita sociale in modo sempre più adeguato? O l’idea­le è il tutti somari ma tutti ugua­li? Se fosse così, basterebbe alle­gare l’attestato di laurea all’atto di nascita: poi si inizierebbe a studiare. E con tutto il rispetto per i lavori più umili (umili per­ché, se uno vi si sente attuato pienamente secondo le pro­prie doti?), non si esiti a recupe­rare una certa metodologia me­ritocratica. La Costituzione ita­liana si esprime esattamente in termini di capacità e di merito (cfr. a. 34, par. 2).

La legittimità della scuola pri­vato-sociale trova la sua giustifi­cazione - come è noto - nel fat­to che la persona e le libere ag­gregazioni sociali - le famiglie in primo luogo - si pongono pri­ma dello Stato, e non viceversa. Ancora la Costituzione: «La Re­pubblica riconosce - riconosce, non attribuisce - e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle forma­zioni sociali ove si svolge la sua personalità» (a. 2); «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei citta­dini, impediscono il pieno svi­luppo della persona umana» (a. 3, par. 2); non solo: «Ogni cit­tadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una finizione che concorre al progresso materiale o spiritua­le della società» (a. 4, par. 2). Do­po di che, se proprio ci si im­punta sul «diritto di istituire - istituire, non gestire - scuole ed istituti di educazione», da parte di enti privati, purché «senza oneri per lo Stato», si renda ono­re almeno al diritto allo studio - che poi è un imperativo entro certi limiti - assicurato di nuovo dalla Carta fondativa della na­zione (cfr. Cost. art. 33-34). Para­dossalmente, è proprio la scuo­la a gestione statale che insorge là dove non ci sono iniziative popolari. Ovvio: quando i cosid­detti corpi intermedi hanno una loro consistenza e una loro omogeneità, e possiedono una originale proposta culturale da far valere. Per non frantumare la società in un pulviscolo di en­ti inefficaci e insignificanti.

Va da sé che ima scuola priva­to-sociale sarà caratterizzata da un proprio disegno educativo li­beramente scelto dalle famiglie o dagli studenti. O lo Stato si può incaricare della formazio­ne dei ragazzi secondo schemi prestabiliti? Prestabiliti da chi?

Spauracchio. Ma così non si fende a metà la convivenza civi­le, non si rischia di creare ghetti culturali, non si ostacola, non si proibisce un confronto tra visio­ni del mondo? E se, invece, per confrontarsi si avesse bisogno di possedere una propria identi­tà? Chi teme un pluralismo ve­ro anche circa gli interrogativi ultimi? Un pluralismo che non sia una corale monocorde che gargarizzi del dialogo senza at­tuare il dialogo autentico? Il pe­ricolo di integrismo esiste. Co­me esiste il pericolo opposto di relativismo. Tanto lontano?

Altro spauracchio. Non sarà, quello della scuola privato-so­ciale, un ulteriore trucco per­ché i cattolici riprendano una egemonia culturale di altri tem­pi e ora dissolta? Si rassicurino i laici. I cattolici di oggi - salvo ec­cezioni - sono tanto divisi, tan­to smarriti e tanto fiacchi da non costituire un pericolo. Qua­si si vergognano di essere e di dichiararsi credenti.

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