Già è stato appiccato - eccome - il fuoco alle polveri sulla questione del regionalismo, del federalismo o della devoluzione. Non sempre il vocabolario che si usa è omogeneo. Ma si sa che in Parlamento è in discussione la legge che intende passare alle regioni i settori civili della sanità, della istruzione e dell'ordine pubblico. Lascio che sul disegno di legge si confrontino i politici e che il problema venga dibattuto tra esperti. Entra anche il dettato costituzionale e diversi filoni storici possono vantare degli antecedenti regionalistici o comunque vengano chiamati. In un periodo come questo, quando il Risorgimento viene osservato con minore apprensione e con maggiore pacatezza, le conclusioni da trarre non sono del tutto univoche.
       Mi limito qui a un appunto sul principio di sussidiarietà che spesso viene messo in campo a favore della devoluzione o comunque la si chiami. Sussidiarietà dice che "una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune" (Centesimus annus, 48). Il che significa, per esempio, che un ipotetico governo europeo non potrebbe esautorare il governo italiano; che lo Stato nazionale non può pretendere di dettar legge anche sulle minuzie della vita sociale delle regioni, delle province, dei comuni e - lo si dica per paradosso - delle famiglie, dove vigono norme non scritte che recuperano pienamente l'umano e non sembra possano esaurirsi in una fattispecie astratta.
       E' a questo punto che interviene il problema della sussidiarietà verticale e orizzonatale. Quella verticale afferma soltanto che, nel medesimo genere di potere esecutivo, si delegano settori precisi a delle autorità più vicine alla gente. Questo essere più vicine alla gente dovrebbe rendere le leggi più capaci di rispondere alle esigenze civili. Con un contraccolpo negativo almeno possibile: che la identificazione della autorità chiamata a intervenire in vari campi, un'autorità che scende a cascata fin quasi a lambire la vita provata del cittadino, può rivelarsi un aumento di organismi strutturali che mortificano, invece di facilitare, la ordinata convivenza civile. Per non parlare della burocrazia che si può diffondere e crescere smisuratamente come una metastasi in un corpo canceroso. Allora il principio di sussidiarietà renderebbe il potere esecutivo tanto prossimo al cittadino da rivelarsi un impaccio.
       Ed ecco il principio di sussidiarietà applicato in senso orizzontale. Qui a determinare l'attribuzione di competenze ai gradi inferiori del potere non è semplicemente il territorio o, comunque, l'organizzazione statuale. Qui in primo piano si evidenzia la società, la quale, con le sue iniziative plurime, culturalmente qualificate in modo diverso, presenta degli aspetti di originalità ignoti alla prassi e alla dottrina politica. Per esempio: la scuola potrebbe utilmente essere impostata in base a una visione del mondo che poi ha influssi e ripercussioni su tutte le materie che vi si insegnano, sulla struttura dei piani di studio e sulla stessa vita. Così si dica, analogamente, della politica della salute. Vi possono essere modalità plurime di assistenza al malato, e sembra che sia opportuno che il malato stesso, o la sua famiglia, scelga la modalità in cui essere curato. L'applicazione non può, certo, arrivare a una pluralità di forza pubblica. E, però, vi sono altri campi in cui questa sussidiarietà orizzontale potrebbe essere applicata: si pensi all'organizzazione e allutilizzo del tempo libero; si pensi alla creatività culturale che si esprima in varie iniziative ecc.
       A questo punto, l'obiezione è la solita. O meglio, sono due. Una prima: così agendo non si spacca il paese verticalmente in due o più tronconi al punto che è reso pressoché impossibile il dialogo? Si tratta di intendersi sul dialogo: se deve affrontare argomenti come il tempo, i programmi televisivi di ieri sera, i progetti per il prossimo week end, allora il dialogo non è proibito per nulla; lo si è negato fin dall'inizio, pregiudizialmente, almeno sui temi che davvero interessano. Per dire che occorre avere delle convinzioni robuste e delle esperienze vigorose per confrontarsi in un dialogo produttivo. Occorre, cioè, avere una struttura spirituale e morale che non si improvvisa per la strada o ciondolando tra pub, discoteche e scuole monolitiche.
       La seconda obiezione è rivolta specificamente ai cattolici: ecco coloro che vogliono essere originali a tutti i costi e pretendono di costruire una civiltà per conto proprio. E' passato il tempo della cristianità, del ghetto, della torre d'avorio ecc. Ritualmente - ma si presti attenzione anche ai cattolici - occorre rispondere che il diritto di creare e di gestire strutture educative, scolastiche e così via è di tutte le formazioni sociali in campo. I cattolici non possono accampare un diritto ad essere presi in considerazione, se amano nascondersi. Ma se esistono con istituzioni proprie, allora perché ignorarli? Aggiungerei, per consolare i laicisti più tenaci, che i cattolici oggi hanno spesso paura della loro ombra. Teorizzano la loro scomparsa nella convivenza civile: cioè, spesso descrivono come ideale un fallimento. Ovviamente mi auguro di sbagliarmi. Buon lavoro a tutti.

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