Omelia nella Messa di Natale

Como, Cattedrale, 25 dicembre 2000

 

Di questi tempi, anche se si volesse costruire un monumento oratorio aere perennius all’uomo per le sue conquiste intellettuali, scientifiche, tecniche, tele­matiche, microbiologiche ecc., ci si accorgerebbe di emettere una voce incrinata, flebile, fessa. Il lutto si addice aH’uomo contemporaneo. Il lutto, o almeno il chiaroscuro di un crepuscolo dove, con gli dèi, svanisce anche l’uomo. L’uomo che ha smesso l’orgoglio del secolo dei lumi. L’uomo che è deluso e quasi impaurito degli èsiti che possono venire dalle sue conquiste. L’uomo che, se si figura il futu­ro, è come preso dai brividi di un orrore struggente e crudele. L’uomo che con il pensiero esce dal nascondiglio come l’uccello notturno a volare in cerca della ve­rità, ma cade nel nulla, o almeno in un morboso intenerimento che sfianca ogni coraggio. L’uomo che è divenuto quasi incapace di altezze nell’organizzare il trionfo della propria libertà: un trionfo moscio e rassegnato, del resto. L’uomo che diffida dei suoi stessi sentimenti, poiché vi sospetta sempre, dietro, la maschera della fin­zione e dell’illusione. L’uomo incline a celebrarsi tenui onoranze funebri, o alme­no ad adagiarsi ai bordi della strada senza aver raggiunto la mèta e senza neppure la forza per rifare la strada a ritroso. E la felicità della vita terrestre è farsa sogghi­gnante e assurda come il tirarsi su per i capelli, mentre si affonda nel fango. E si invoca la morte, ma non si emette la decisione di chi vuol farla finita: si cerca piuttosto un boia autorizzato che permetta di riconsegnare il biglietto dell’esisten­za apparentemente senza rimorsi, mentre i rimorsi possono insorgere, indomabili, di là, dove vibra un Amore trepidante che aspetta.

Il disegnare il Natale del Signore come un fatto, una dottrina, un rito e una evocazione apportatrice di gioia, quasi irrita la suscettibilità umana di oggi, poiché l’insensibilità, l’anestesizzazione, la morfinizzazione della persona sembrano ap­prodi a loro modo salvifici dal momento che sradicano - si sforzano di sradicare - il richiamo di Dio che ci si trova dentro innegabile.

Vogliamo allora accostarci, attoniti e quasi sgomenti al silenzio del Verbo che si incarna e al canto degli Angeli che proclamano beati gli uomini verso cui Dio ha misericordia e tenerezza? Lasciamo che parli l’io più profondo il quale si nasconde dietro i paraventi e sotto le coltri del pensiero unico e omologante, e del comporta­mento disinvolto e impacciato e inquieto.

 

1. Che cosa vuole il nostro io supremo e insaziato e tentacolare? vuole le cose? pretende di soggiogare l’universo - macro o micro - così da diventare padrone del tutto? esige di possedere e di godere senza prendere atto delle rughe che si forma­no sul volto e del morire che si scolpisce nell’intimo? Si impunta per voler consu­mare a tutti i costi, mentre il cuore si accartoccia e quasi si impietrisce, e giunge il tempo in cui non sono più concesse le danze e le svagatezze giovanili, e quando partiamo per sempre, di là non rechiamo nulla. Gli interrogativi potrebbero scava­re anche più a fondo.

Ci si potrebbe limitare alla costatazione che le cose non bastano, non placano l’animo. C’è di più. Quando l’aggressività di chi vuol agguantare la roba che ha attorno, giunge al suo acme, allora non si affaccia soltanto il senso di fallimento e di disgusto; irrompe anche la voglia di distruggere: di distruggere e di rintanarsi lontano dal chiasso e dalla festa forzata che si va ingigantendo e spegnendo: ritirar­si in solitudine disperata e inconcludente. In solitudine, mentre la punta estrema dell’enigma della nostra persona non si arrende e ancora sta in una attesa mai sopita; e non riesce a sopportare la vertigine del nulla in cui affonda.

 

2. Ai nostri giorni va di moda la solidarietà, la comunione fraterna, il dialogo interpersonale, l’amicizia o il notevole tenerume di rapporti umani che costituisce gran parte del molle e ispido e vuoto linguaggio adolescenziale.

Rimane un fatto da costatare: non riusciamo a rimanere ciascuno come una monade estranea o contrapposta a tutte le persone con le quali viviamo e che in­contriamo nel nostro cammino. Abbiamo bisogno degli altri. Abbiamo bisogno non della folla di eremiti prestampati nella quale ci facciamo spesso largo a gomitate. E ciascuno sta solo sul cuor della terra. Abbiamo bisogno dell’incomodo che ci portano gli altri: gli altri scontati e seriali e deludenti, all’apparenza. Gli altri sorprendentemente spesso ricchi di novità e di idee e di bellezza e di bontà e di gioia, nella realtà.

Non lasciamoci andare troppo disinvoltamente alla lirica della reciprocità delle coscienze. L’amicizia, quella vera, turba e costringe a rivedersi e sollecita a divenire.

E’ una grazia quando incontriamo qualcuno che ci legge nel profondo e decifra le nostre virtualità - ciò che possiamo diventare - e ci rivela le nostre più profonde aspirazioni, anche quelle che noi esitiamo ad ammettere; e ci esprime speranze perché noi decidiamo in suprema libertà di raggiungere la perfezione che il destino - il destino, o Chi? - ci ha assegnato. Allora ci appare in sovrana chiarezza la nostra povertà di vita. Diviniamo, però, anche la vocazione a cui siamo orientati: la voca­zione che è gioia frammista a pesante fatica: a orrenda e lunga fatica. Allora è come se l’io nascesse in una genuinità imprevista. E si sa come prosegue la riflessione.

Con un appunto. Anche gli altri ci seducono e ci deludono. Due o cento ignoran­ze non fanno una scienza. Due o cento ottusità non fanno un genio. Due o cento fragilità si assommano, ma non formano un vigore, anzi. E dentro rimane vuoto un angolo d’anima che invoca altro. Diciamo la costatazione brutale: quando una per­sona amata infrange i nostri sogni, allora non ci limitiamo a staccarcene: la vor­remmo distruggere. Amore e morte congiunti. E il cuore ancora annaspa: artiglia chi ci viene a portata di mano, ma sta invocando l’Oltre.

 

3. La beatitudine, il gaudio, l’esultanza e la pace sono atteggiamenti che soltanto Dio può donare. Dio che, al tempo stesso, ci colma e fa germinare in noi il deside­rio e l’urgenza e la necessità di incontrarlo. Dio che si pone quale punto apicale della nostra arrancante ascesa: arrancante e sostenuta. La vetta del nostro desidera­re: una potenza obbedienziale. Dio che deve avere volto e mani e cuore di uomo, per colmare l’essere enigmatico, fragile e sublime che è, appunto, l’uomo. Allora l’intelligenza si spalanca e si perde, e parla e tace nella Verità. La libertà si inoltra nel Bene che si sperimenta come pienezza di grazia. La sensibilità si afferma e si amplifica in una bellezza che si sa gustare, ma non si riesce a descrivere.

Il Natale per ciascuno di noi inizia quando avvertiamo e balbettiamo questa segreta supplica: che Dio ci raggiunga; il medesimo Dio che ha messo dentro la fame e la sete di Lui. Vieni, Signore Gesù. E siamo come le sentinelle che alzano la voce e gridano di felicità poiché intravvedono nel chiaroscuro la venuta del Signo­re: il Signore che ha parlato molte volte e in diversi modi durante i tempi antichi e che ultimamente ha parlato a noi per mezzo del Figlio che ha costituito erede di tutte le cose e di tutti gli uomini fatti suoi fratelli. E il Verbo era nel principio presso Dio, e tutto è stato fatto per mezzo di lui, e tutto si muove con il suo aiuto, e accende in noi l’attesa di chi vuole aprirsi a riceverlo; e noi siamo il mondo che non lo riconosce, eppure siamo coloro che l ’hanno accolto e ai quali ha dato il potere di diventare fgli di Dio, poiché crediamo nel suo Nome.

Quando il Verbo si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi, la vita inizia a sorridere ed esplode la gratitudine e la festa; e si può anche dolorare, ma tutto acquista significato e valore nuovi. Il Natale, silenzio che attende e che pronuncia l’invocazione che il Signore ci mette nel cuore e sulle labbra: lo stesso Signore che esaudisce l’invocazione che ci ha messo nel cuore e sulle labbra.

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