Il Dio con noi

Omelia nella Messa del giorno di Natale

Como, Cattedrale, 25 dicembre 2005

 

«Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).

«Venne ad abitare in mezzo a noi». Non è, credo, possibile - per descrivere un evento inaudito ed esporre un concetto sovrastante ogni umana comprensione e ogni attesa - trovare una frase più semplice e feriale di questa: è il linguaggio dei nostri traslochi e dei nostri trasferimenti.

Già nella sua forma espressiva evoca l'indole propria della realtà centrale del cosmo e della storia; cioè, la verità dell'Incarnazione. «Il Verbo si fece carne», ci ha detto l'evangelista: vale a dire, è la divina ricchezza che, per così dire, si immiserisce; è l'infinità che assume l'esiguità di un neonato; è l'onnipotenza che accetta di farsi bisognosa di tutto come la più piccola della creature. «Umiliò (quasi ‘annientò’) se stesso», ha detto sinteticamente san Paolo (cfr. Fil 2,8).

E' la realtà - sublime e dimessa al tempo stesso - dell'Unigenito del Padre che diventa uno di noi. E' il prodigio grandioso e povero del Natale, che una volta ancora quest'anno ritorna, sempre eloquente e sempre efficace, e con dolcezza si impone all'attenzione anche dei più superficiali e dei distratti.

Dio - che è il "lontanissimo" e il "diversissimo" da noi - si è fatto nostro "prossimo", nostro vicino di casa, nostro compagno di viaggio: un evento, questo, che l'uomo, con tutto il suo egocentrismo e la sua autoesaltazione, non poteva arrivare neppure a immaginare.

E' vero che gli uomini - nei momenti in cui si sentono oppressi dalla crudeltà delle circostanze, dalla tirannia impietosa dei prepotenti, dalle molteplici forme del male - invocano come d'istinto la presenza risolutiva di colui che è il Creatore di ogni essere e il Giudice di ogni comportamento. «Oh, se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (cfr. Is 63,19), leggiamo nelle profezie di Isaia. Ma era come il sospiro di un auspicio irreale e senza speranza. Invece, ciò che sembrava un desiderio folle è stato questa notte esaudito. A Betlemme i cieli si sono sul serio "squarciati" e il «Figlio unigenito che è nel seno del Padre» (cfr. Gv 1,18) è davvero disceso.

E tutto è cambiato per la sventurata stirpe di Adamo: la nostra miseria più sostanziale è finita, perché «dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto, e grazia su grazia» (cfr. Gv 1,16), come abbiamo ascoltato.

Perciò le genti cristiane non si stancano mai di celebrare con entusiasmo il Natale, moltiplicando anche nelle case e nelle strade le manifestazioni di festa e di splendore (pur se poi in molti sembrano colpiti da una curiosa amnesia e non ricordano più la causa e la ragione di tanto tripudio).

C'è però qualcosa che è ancora più strano e inspiegabile, cui allude discretamente anche il prologo del quarto vangelo con le parole: «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto» (Gv 1,11).

Dio si è fatto "nostro prossimo", ma poi càpita che a noi non piace troppo essere "prossimi" a lui. E' un "vicino di casa" che sembra infastidire. Si direbbe che alla sua compagnìa si preferisca essere soli e desolati lungo il cammino della vita.

Vedete, non sono molti a negare esplicitamente Dio perché, se è difficile dimostrarne l'esistenza, è ancora più difficile ipotizzare ragionevolmente che non ci sia nessuno all'origine delle cose. Ma sono molti che sembrano preferire la sua latitanza. Un Dio remoto, che non interferisca nei nostri affari, ci disturba meno: forse si pensa che così noi possiamo essere più autonomi, più "adulti", più padroni di noi stessi e del nostro destino.

Perfino i credenti talvolta sono un po' contagiati da questa mentalità, e magari tentano di giustificarla chiamandola "autonomia"; ed è invece soltanto incomprensione della bellezza e della verità del Natale.

«Il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe» (Gv 1,16), ci ha detto malinconicamente l'evangelista.

Sarà bene che ci convinciamo che Dio non è un intruso nella creazione che è originata da lui. A estrometterlo si rischia di estromettere con lui il significato stesso del nostro esistere.

In questo concreto ordine di cose che di fatto è stato realizzato, l'Emmanuele, il "Dio con noi", l'Unigenito del Padre nato a Betlemme secondo la natura umana, è il necessario fondamento di tutto: «in lui sono state create tutte le cose» - ci dice san Paolo - «e tutte sussistono in lui» (cfr. Col 1,16.17). Se lo si rimuove, si pongono le premesse perché tutto il nostro edificio rovini.

Non a caso il profeta nella prima lettura ci ha parlato delle "rovine di Gerusalemme", come figura dello sfacelo dell'umanità intera.

L'immagine di una costruzione rovinata dall'estromissione di Dio e del suo Cristo si affaccia alla mente di chi contempla con occhi disincantati la società in cui viviamo: una società che non insegna più a distinguere adeguatamente il bene dal male e perciò non riesce più a educare i suoi figli, che esalta più la "notizia" della "verità", che è comprensiva con i prepotenti ed è impietosa con chi non sa gridare e difendersi. E l'elenco delle "macerie" della città terrena potrebbe ancora allungarsi.

Ma il profeta ha parlato di "rovine" non per avvilirci e deprimerci, ma per risuscitare la nostra fiducia nell'amore sapiente di Dio, che è più potente dei nostri egoismi e delle nostre stoltezze ed è capace di risanare e ricostruire: «Prorompete in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme» (Is 52, 9).

Il Natale è appunto la festa della speranza cristiana, che non è il fatuo ottimismo di chi non si rende conto del malessere e dei guai che affliggono il nostro tempo, ma è la certezza che a Betlemme è nato - e, dopo la sua crocifissione e la sua gloria, continua a essere il Signore della storia - colui che ci ha detto: «Avrete tribolazione, ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo!» (cfr. Gv 16,32).

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