Omelia nella Messa del giorno di Natale

Como, Cattedrale, 25 dicembre 2001

 

D'accordo, è nato un bimbo a Betlem. Ha visto la luce fioca in una grotta. E' stato deposto in una mangiatoia. Ecco un dato. Appendiamo un fiocco bianco o azzurro. Porgiamo gli auguri ai genitori. Si usa. Poveretti: chissà che cosa riserva loro il futuro: il futuro che mette i brividi e suscita sgomento. C'è altro da fare o da sperimentare? Passiamo ad altro?

No. Questo avvenimento è circonfuso di chiarità e custodito ed esaltato da canti. Isaia dice a Sion: "Regna il tuo Dio... il Signore ha consolato il suo popolo". E la lettura agli Ebrei descrive la storia umana come una serie di scansioni che segnano il graduale svelamento e la visita progrediente di Dio, fino al culmine: "ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del suo Figlio... irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza": il Figlio "per mezzo del quale (Dio) ha fatto il mondo... e tutto con la potenza della sua parola". E la vertiginosa e appassionante pagina di Giovanni contempla il Verbo che "si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi".

Il cuore dovrebbe sussultare e gemere di meraviglia e di riconoscenza: il cuore che, invece, può rimanere insensibile, arido come un coccio. Mentre si misura non solo con un dato, ma anche con un valore.

Vogliamo trapanare il nostro animo come in un tentativo di impietosa speleologia umana, per scoprire gli agganci e le anticipazioni del Natale che dovrebbero vibrare in noi? Forse, come in negativo, possiamo decifrare le nostre aspirazioni più segrete e prementi, e scoprire così che questo Bimbo che nasce a Betlem altro non è se non l'Altezza ultima dei nostri desideri e delle nostre esigenze di pensiero e di vita?

Forse. Il nostro cuore proteso all'infinito e tanto vorace di nutrimenti che non siano soltanto terrestri: il nostro cuore può portarci sulla soglia del Mistero e comandarci di genuflettere davanti all'Assoluto che intuiamo e quasi pre-sentiamo durante i nostri giorni stanchi e opachi. Ci sospenderemo così a una trascendenza remota e oscillante tra la vertigine del tutto e il panico del nulla? Chiediamo - esigiamo - altro: la trascendenza deve essere un Tu - il supremo Tu - a cui rivolgiamo la nostra attenzione e il nostro supplicare e il nostro lodare. O può essere che questo Tu si riveli come l'Io supremo per me: l'Io sommo che mi fa esistere e mi chiama per nome e mi ama di affezione sconfinata e avvolgente.

Un'affezione che rimane nella sua remota e logicissima freddezza, se non assume un volto e un cuore e occhi e mani di Uomo. Dunque, sarò costretto a scegliere tra un Dio che mi esalta e mi sospinge in una desolata solitudine, da una parte, e, dall'altra, un Uomo che mi rimanda come uno specchio implacabile il volto sfigurato e gli urli e i gemiti della mia disperazione? Aut aut?

Ecco il cristianesimo: et et. Dio viene tra noi, si incarna in Gesù di Nazareth, l'Uomo perfetto e Figlio di Dio. Ora incontriamo l'Infinito personale del Verbo nella limitatezza sconfortante e sorprendentemente redentiva del Cristo. " E noi vedemmo la sua gloria: gloria come di Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità". L'iniziativa di Dio eccede i nostri sogni di grandezza. L'iniziativa di Dio che possiamo accogliere nell'umiltà di chi crede nel suo Nome: allora diventiamo "figli di Dio" che "non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati".

Le meraviglie della fede si spalancano a noi soltanto se ci lasciamo trovare e afferrare e cambiare. Il Verbo incarnato è venuto a Natale, viene a ogni svolta della vita e verrà, glorioso, nell'ultimo giorno della nostra stanca e fervida esistenza, e al termine-inizio della fragile e sporca e anelante storia umana che entrerà nell'eterna esultanza. Se noi lasceremo spazio e apriremo le porte al Signore che torna. Possiamo serrarci - murarci - nella nostra orrenda desolazione che pure ci attrae in modo enigmatico e impetuoso: "venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto". Occorre scendere dal nostro misero e traballante piedestallo per diventare capaci di conversione quotidiana: come i pastori, come Maria, come i piccoli che sanno godere di nulla poiché il loro sorriso risponde all'ammiccamento dei genitori. Diventiamo perfino capaci di letizia, noi quasi fatalmente inclini a custodire e a coltivare la nostra più riposta tristezza in un pianto segreto e affranto. Capaci di letizia perché la vita e la morte e ogni istante di dolore e di fatica sono appuntamenti con il Signore; capaci di chiarezza improvvisa e di voglia di continuare il cammino e di amicizia dolce e robusta e subitanea e duratura; capaci di estro che freme davanti alla Verità e alla Bontà e alla Bellezza, e di canto che viene spontaneo dall'intimo talvolta: ogni gesto e affetto e pensiero acquista un senso in Cristo che nasce e rimane tra noi tutti i giorni, e che verrà: verrà anche se noi gli ci opporremo; siamo chiamati a desiderarlo e a invocarlo. Possiamo, dobbiamo recepirlo come giudizio e benedizione. Nonostante tutto, è Lui il nostro grandioso Compimento.

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