Il professore e il pastore

Siccome il nuovo papa è un professore che arriva da una cattedra universitaria e ha scritto libri alti così, ci si dovranno attendere delle trattazioni elaborate e ostiche da assimilare: premessa di metodo, annuncio di contenuto, sviluppo per punti, conclusione arida senza nessuna concessione al sentimento. E note, note, note per documentare ogni riga e quasi ogni parola: per avvisare da dove è tratto un pensiero; per indicare delle vie  di sviluppo per chi vuole approfondire ecc. Insomma, una lezione, non una confidenza: nemmeno una predica; una lezione arcigna e puntuta dove lo stile non è curato, ma l’approccio scientifico sì, fino alla minuzia. Ciò se si tratta di bibbia: impegnandosi in una esegesi che magari tritura il testo invece di farlo amare. Se si tratta di un passo patristico: con una collocazione sincronica e diacronica rispetto ad altri brani per rendere precisa l’affermazione che si lascia cadere. Ovvio: un professore – un professore di teologia tedesco, per di più – non può perdere lo smalto e adattarsi a quasi analfabeti, desiderosi di amore, però.

Ed ecco, invece, la prima predica del pontificato in piazza S. Pietro. Poteva essere una sorta di esposizione di piano di lavoro, una sorta di discorso della corona, una sorta di lectio magistralis. Macché: spiega gli abiti liturgici che indossa: il pallio che richiama l’autorità del pastore e la tenerezza della pecora; l’anello del pescatore che rimanda al compito di siglare i documenti imprimendo il proprio esergo e conferendo a essi il peso del comando, ma anche l’affetto dell’amico. Non solo: per quattro volte dice “amici” invece che il più paludato “fratelli”; parla di speranza e di gioia come un liceale dal cuore gonfio; e discorre con i fedeli senza nessuna aria di supponenza. Richiama l’amore a Gesù come se i suoi settantotto anni portassero la sensibilità di un ragazzo in fiore. E allarga le braccia, ma poi stringe le mani, e sorride con timidezza ma anche con la fiducia di chi sa di voler bene e non aspetta neppure che gli si voglia bene, poiché ne è sicuro. Ha bisogno di dipendere da Cristo. Assicura che tutto ciò che dirà nel suo magistero lo imparerà dalla Chiesa che dilige il Signore Gesù.

Non ci vorrà molto a intuire una sensibilità acuta e delicata in Benedetto XVI, il quale non ha nulla del gendarme e del censore che ci si illude sia.

A una condizione: che non ci si arresti alle fattezze e alle movenze esteriori.  Verrà il tempo in cui sarà costretto – e lo farà con coraggio e con letizia – a contrastare le attese mondane – le attese che deludono e rattristano - :  sarà condotto a presentare il pensiero e la volontà di Cristo, che non sempre concordano con le nostre aspirazioni più superficiali. Verrà il tempo. Non ci si meravigli se all’umanità e alla Chiesa, come la rete dei centocinquantatre pesci che si è spezzata, dovrà dire, per fedeltà al Signore Gesù, parole severe che liberano dai deserti dell’animo umano il quale ha abbandonato Dio e brucia di sete e si strugge di solitudine. Neanche Benedetto XVI  potrà togliere la croce di mezzo. Lo sentiremo fratello e padre, però.

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