La notizia non ha fatto scalpore, ma presenta un suo interesse. Eccola. Di recente il Tribunale civile di Milano ha emesso una sentenza la quale chiede a un marito che ha voluto divorziare il risarcimento dei danni anche psicologici ed emotivi procurati alla moglie abbandonata. La fattispecie ancor più precisa è quella di una donna che aspettava un figlio dal marito il quale, ancor prima che il figlio nascesse, ha piantato tutto e si è messo a vivere con un'altra. Conclusa la vicenda in Tribunale, la sentenza ha imposto non solo l'assegno di mantenimento, ma anche la rifusione della sofferenza - magari l'angoscia, la nevrosi - di cui l'uomo è stato considerato responsabile. Penale: 5.160 euro (10 milioni di lire): una somma modesta, ma a contare è il principio che la Corte ha sancito.
       E' chiaro in che cosa consista la novità. Finora nelle cause di divorzio si fissava per ciascun coniuge la custodia dei figli, l'attribuzione dei beni e l'assegno di mantenimento. Bastava questo. Adesso si dovrà prendere in considerazione anche altro, se la decisione del Tribunale di Milano si imporrà stabilendo una prassi giurisprudenziale. E saggio attendere le motivazioni traendole per esteso dal verdetto pubblicato. E però, qualche rilievo può essere appuntato fin da ora: e precisamente sul concetto di bene sottratto o di serenità impedita o defraudata al coniuge innocente da parte di quello colpevole. Sarà fondamentale - lo si intuisce - che si identifichi colui/colei che sia responsabile dello scioglimento del matrimonio (e dell'unione di fatto?). Dovrà trattarsi, si diceva, di situazioni di sofferenza particolarmente grave causata.
       Con tutte le approssimazioni del caso, usiamo il termine felicità. La sentenza parla di «modificazione peggiorativa della sfera personale del soggetto, intesa come il complesso di attività, ma anche di vissuti affettivi, emozionali e relazionali». Ebbene, nelle premesse della decisione giudiziale pare che la felicità non possa più essere immaginata come qualcosa di soltanto individuale, se non proprio di egoistico, da non condividere con nessuno. Chi ce l'ha se la tiene, e l'altro si aggiusti. No. Quando ci si lega almeno in modo un poco stabile e pubblico tra un uomo e una donna, la felicità è bene unico di entrambi i coniugi. In questo senso è da risarcire anche il danno affettivo - e morale? - almeno quando presenta una qualche rilevanza, provocato con la separazione e il resto. D'accordo: si è ancora a una sorta di valutazione unicamente pecuniaria o quasi di un effetto perverso di ordine pressoché spirituale. E' il limite della legge e della giustizia umane, per ora. E tuttavia, la realtà dell'amore coniugale a cui ci si rifà, sembra non essere più da valutare soltanto in chiave di possesso e di benessere solitario. I due sono in qualche modo una sola carne e uno spirito risultante da una quasi loro fusione. Perciò si procura dolore non solo quando si sottrae qualcosa all'altro, ma anche quando lo si ferisce nella sua sensibilità e nel suo equilibrio psicologico: forse nel suo spirito. Un dolore che chi l'ha provocato è tenuto a far superare nei limiti del possibile e nei modi consentiti. Si esce dalla concezione del matrimonio come puro contratto per lambire qualcosa che assomiglia a un'alleanza, a un patto, a una comunione di amore: dove l'amore è più del sesso e della coabitazione; si arriva a intuire il matrimonio come la condivisione dell'intera vita coniugale. (Non lo dico, ma sto citando San Tommaso).
       Forse corro troppo. Eppure non vedo come si possa arrestare questa logica di fronte al caso di eventuali figli. Per esempio, se un bimbo viene traumatizzato dalla decisione del papà di piantare la mamma - o viceversa -, non ha qualche diritto lui pure a essere compensato nel suo dolore e reintegrato nella sua serenità?
       Attenzione. Si rischia di arrivare al matrimonio indissolubile.

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