La questione, può apparire complessa, ma ha una sua ricaduta immediata niente meno che sull'applicazione del principio della libertà religiosa nella convivenza civile. I fatti, dunque. Tempo fa i testimoni di Geova si rivolgono al Comune di Cremona per avere la propria parte dei finanziamenti regionali lombardi, destinati alla costruzione di infrastrutture e alle attrezzature religiose. L'autorità municipale rifiuta l'erogazione adducendo il motivo che i testimoni di Geova non hanno titolo per tale richiesta: infatti - argomenta - questa confessione religiosa non intrattiene con lo Stato italiano rapporti ufficiali regolati da un Concordato o da una intesa. A riprova di ciò viene portata la constatazione che a godere dell'8 per mille del gettito Irpef sono soltanto - a tutt'oggi - i cattolici, gli ebrei, i luterani, i metodisti, i valdesi, gli avventisti del VII giorno e le Assemblee di Dio in Italia. I richiedenti insistono e il Comune ricorre al Tribunale amministrativo regionale, il quale passa il problema alla Corte costituzionale. La suprema istanza interpretativa della legge sentenzia che «le intese tra confessioni e Stato non sono e non possono essere una condizione imposta dai poteri pubblici alle religioni per usufruire della libertà di organizzazione e di azione, né per norme di favore».
       Conclusione: la legge regionale per questo aspetto è dichiarata incostituzionale; i testimoni di Geova vanno ammessi alla distribuzione dei fondi. E va bene. La pronuncia della Corte costituzionale, però, apre più problemi di quanti ne chiude. E, del resto, suo compito non è elaborare e imporre leggi, ma segnalare spazi dove gli organi del pubblico potere devono intervenire in vista dell'ordine sociale. In gioco qui non sono soltanto soldi da erogare. E niente meno che la libertà religiosa da riconoscere e da sostenere. La libertà religiosa che si riferisce anche ad aggregazioni culturali agnostiche circa l'interrogativo di Dio o dichiaratamente atee. Purché rimangano entro gli ambiti del bene comune.
       Ed è quel settore civile che attende una normativa. Quali sono i soggetti comunitari da considerare come tutelati e da tutelare in base al principio del diritto alla libertà religiosa? Anche centri di studi e di propaganda vagamente culturale? E più in là: quando una formazione pur variamente religiosa inizia a porsi nella società come capace di avanzare il diritto di libertà propria nei confronti del pubblico potere?
       Non si è di fronte a questioni astruse. Si rechino due esempi. L'islam risaputamente non è una religione monolitica. Con quale dei molteplici musulmanesimi politici o quasi lo Stato intesserà relazioni? E di questi giorni la messa in guardia di musulmani i quali segnalano il pericolo che l'autorità civile italiana sovvenzioni «rappresentanti delle organizzazioni per lo meno ideologicamente fiancheggiatrici del terrorismo» islamico. E ancor prima è legittimo riconoscere la libertà religiosa a formazioni religiose che, almeno in pratica, la negano ad altre confessioni?
       E poi. È noto il fenomeno delle «sette» che pullulano anche tra noi. La percentuale degli adepti è minima (qualcosa come l'1 per cento), mentre nell'informazione assume proporzioni assai più vaste (qualcosa come il 15 per cento). A quali di queste sette - e di altre eventuali - riconoscere libertà religiosa e anche sostegno economico? Non si impone l'enucleazione di qualche criterio oggettivo per valutarne il riconoscimento civile? Organizzazione interna pur minimale? Tradizione storica? Una qualche consistenza numerica? Un notevole influsso culturale? Eccetera.
       Si specifichi. Diversamente, in un futuro non troppo lontano potremmo trovarci di fronte a una fungaia di gruppuscoli pretenziosi. Sia chiaro: l'osservazione vale anche per un cattolicesimo esangue e smagrito.

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